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Archive for the ‘Padre Mauro Gagliardi’ Category

 

L’elevazione dell’Ostia e del Calice alla consacrazione eucaristica

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di Mauro Gagliardi*

 

ROMA, martedì, 28 giugno 2011 (ZENIT.org).- A pochi giorni dalla solennità del Corpus Domini, ci piace concludere questa terza annata della nostra rubrica «Spirito della Liturgia» trattando dell’elevazione dell’Ostia e del Calice, subito dopo la consacrazione, all’interno della Messa.

L’introduzione nel Canone di questo gesto risale all’inizio del sec. XII per l’Ostia, mentre l’elevazione del Calice si imporrà più lentamente e verrà ufficialmente prescritta solo dal Messale di san Pio V (1570). Le fonti individuano la Francia come luogo di origine dell’elevazione eucaristica e sembrano suggerire che il motivo circostanziale fu la volontà di evitare che i fedeli adorassero l’Ostia già all’inizio della consacrazione, quando il sacerdote prende il pane nelle mani, per pronunciare le parole del Signore.

Sin dalla prima metà del Novecento, diversi autori hanno però sostenuto che il vero motivo dell’introduzione dell’elevazione sarebbe stato il desiderio, da parte del popolo cristiano, di guardare l’Ostia. L’opera probabilmente più indicativa al riguardo è quella di E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines de la dévotion au Saint-Sacrament (Paris, 1926). J.A. Jungmann, uno dei più noti liturgisti del secolo scorso, subì l’influenza di questo libro, come si nota da quanto dice sull’elevazione nel suo famoso libro del 1949 Missarum sollemnia: «È sorto [nel sec. XII] tra i fedeli un movimento religioso volto ad ottenere che sia loro concesso di posare lo sguardo su quel Santissimo Sacramento al quale osano appena di accostarsi» (ediz. it., II, p. 159). Già nel 1940, però, G.G. Grant, in un articolo pubblicato su Theological Studies, aveva mostrato che la tesi sostenuta da Dumoutet non poteva dirsi davvero fondata. Essa supponeva nel popolo una forma di devozione eucaristica, che in realtà sappiamo essere stata più effetto che causa dell’introduzione dell’elevazione. Grant sosteneva che l’elevazione fosse dovuta piuttosto a motivi dottrinali, ossia per innalzare una solida barriera liturgica contro gli errori degli eretici riguardo la presenza reale. In questo senso, l’introduzione dell’elevazione risponderebbe alla stessa preoccupazione che ha spinto Benedetto XVI a distribuire la Comunione solo in ginocchio e sulla lingua: mettere un punto esclamativo sulla dottrina della presenza reale (cf. Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, pp. 219-220).

Ma Jungmann, pur citando Grant nel primo dei due volumi di Missarum sollemnia, mantenne la posizione di Dumoutet, presentando tutti gli argomenti che da quel momento in poi sarebbero divenuti affermazioni ripetute, negli scritti e nelle conferenze di molti teologi e pastori. Tutto quello che lì dice, come pure il legame che individua tra l’introduzione dell’elevazione e la nascita dell’adorazione eucaristica, viene presentato in fondo in termini di degenerazione, più che di progresso (cf. I, pp. 103 ss.).

La riforma liturgica post-conciliare della Messa ha dimezzato il numero delle genuflessioni che il sacerdote compie alla consacrazione, ma non ha eliminato l’elevazione dell’Ostia e del Calice. Nonostante ciò, la tesi Dumoutet-Jungmann ha continuato ad essere proposta, lasciando emergere la convinzione che elevare e guardare l’Ostia consacrata sarebbe segno di una fede poco matura, se non addirittura di una fede scaduta a livello di superstizione o di magia – certo questo, ieri come oggi, è sempre possibile; ma non è detto che rappresenti il significato del gesto in sé. Dobbiamo al contrario riconoscere che l’introduzione dell’elevazione alla consacrazione è un punto di vero progresso nella storia della Santa Messa. È da qui che nasce quel movimento di fede eucaristica che sfocia prima nel Corpus Domini (1264) e poi in tutte le forme di sana devozione eucaristica sviluppate fino ai nostri giorni. La contemplazione adorante dell’Ostia e del Calice appena consacrati non fa altro che esprimere due punti assolutamente fermi della fede cattolica sull’Eucaristia: la transustanziazione, che avviene nell’istante stesso in cui termina la dizione delle parole consacratorie da parte del sacerdote (cf. san Tommaso, Summa Theologiae III, 75, 7); e la presenza reale di Cristo nel sacramento. In realtà, l’elevazione esprime anche l’aspetto sacrificale della Messa, che per motivi di spazio non possiamo qui sviluppare. La duplice elevazione e le genuflessioni manifestano, e allo stesso tempo favoriscono, il giusto modo di accostarsi al Cristo eucaristico, modo segnalato da san Paolo prima (cf. 1Cor 11), e poi da sant’Agostino, con le celebri parole riprese da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis, n. 66. (mais…)

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Le disposizioni integrative del Cæremoniale Episcoporum al Missale Romanum

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di Natale Scarpitta*

ROMA, mercoledì, 15 giugno 2011 (ZENIT.org).- All’interno della rubrica «Spirito della Liturgia», desideriamo quest’oggi focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti, riguardanti il rito della Celebrazione eucaristica, che non appaiono regolamentati nel Missale Romanum (= MR, editio typica tertia del 2008). Né le disposizioni liturgiche previste dall’Ordinamento Generale del Messale Romano (= OGMR), né le rubriche ad esso annesse descrivono infatti alcuni dettagli celebrativi che, seppur secondari, non sono del tutto irrilevanti.

È lecito perciò chiedersi se tali lacunae possano essere arbitrariamente colmate dall’estro creativo del presbitero che celebra l’Eucaristia, o vi siano piuttosto indicazioni specifiche, contenute in altre legittime fonti documentali normative, alle quali si possa ricorrere per attingere il venerando patrimonio liturgico della Chiesa. Collocandoci nel solco della Tradizione, non è difficile dare risposta al quesito. È giusto infatti presumere, come vincolanti, le disposizioni normative più dettagliate che il Cæremoniale Episcoporum (= CE, editio typica, reimpressio emendata del 2008) impartisce riguardo alla Missa stationalis, la Celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo diocesano alla presenza del suo presbiterio e degli altri ministri, con la partecipazione del popolo di Dio. Il fondamento legittimo di tale praesumptio risiede nel fatto che la Messa officiata dal Vescovo diocesano nella propria diocesi, speciale epifania della cattolicità della Chiesa particolare (cf. Sacrosanctum Concilium[= SC] n. 41), per risplendere di nobile semplicità (cf. SC n. 34) deve manifestare una peculiare esemplarità celebrativa, costituendo così un modello a cui le altre Liturgie eucaristiche che si celebrano in diocesi possano ispirarsi (cf. Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 39).

Proviamo ora ad esaminare nel concreto alcune disposizioni liturgiche del rito della Messa, previste dal CE e complementari rispetto alle norme contenute nel MR. Un primo aspetto attiene all’incensazione. L’OGMR descrive l’incensazione ai nn. 276-277. Il CE aggiunge che l’incenso sia puro e di soave odore e, nel caso si aggiungesse altra materia, si abbia cura che la quantità di incenso sia di gran lunga maggiore (cf. n. 85). Il CE descrive poi altri dettagli interessanti riguardanti l’incensazione alle note 74-75 dei nn. 90-91. (mais…)

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Il modo di scambiare il segno di pace nella S. Messa

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


di Juan José Silvestre*

ROMA, mercoledì, 4 maggio 2011 (ZENIT.org).- «Quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere sia per noi stessi… sia per gli altri… Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio» (Giustino di Nablus, Apologia I, 65; 67, cit. in CCC, n. 1345). Queste parole di san Giustino, scritte attorno al 155, presentano per la prima volta il segno di pace durante la Santa Messa. (mais…)

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GESTI E MOVIMENTI DEL SACERDOTE DURANTE LA CELEBRAZIONE

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di Mauro Gagliardi*

ROMA, mercoledì, 6 aprile 2011 (ZENIT.org).- La Sacrosanctum Concilium insegna che nella liturgia «la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi» (n. 7). Il fatto che il culto divino sia contrassegnato dalla presenza di segni percepibili coi sensi esterni si spiega in base alla natura dell’uomo, essere corporeo-spirituale. Così annota il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l’uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l’uomo ha bisogno di segni e di simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio» (n. 1146). In queste brevi note, vogliamo soffermarci sui segni liturgici della gestualità e del movimento, limitandoci a considerare il solo sacerdote celebrante.

È noto che la forma straordinaria del Rito Romano fornisce indicazioni precise e di dettaglio sui gesti e i movimenti che il sacerdote deve compiere nella liturgia. L’Ordinamento del Messale di Paolo VI è al riguardo più sobrio, anche se non mancano numerose indicazioni. Proponiamo alcuni esempi (corsivi nostri): (mais…)

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La lingua della celebrazione liturgica
Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi
di Uwe Michael Lang, C.O.*

ROMA, mercoledì, 9 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La lingua non è soltanto uno strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra mens in un modo che coinvolga tutta la persona. Di conseguenza, la lingua è anche il mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi.

La lingua adoperata nel culto divino, ovvero la “lingua sacra” non si spinge fino alla glossolalia (cf 1Cor 14) o al mistico silenzio, escludendo completamente la comunicazione umana, o almeno tentando di farlo. Tuttavia, si riduce l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in particolare quello espressivo. Christine Mohrmann, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, la Mohrmann sostiene che ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. In tal senso, il Cardinale Albert Malcolm Ranjith ha ricordato in un’intervista: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (La Repubblica, 31 luglio 2008, p. 42). (mais…)

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Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa “verso il popolo”

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


di don Mauro Gagliardi*

ROMA, mercoledì, 26 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Sin da tempi remoti, la Chiesa ha stabilito segni sensibili, che aiutassero i fedeli ad elevare l’anima a Dio. Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, ha motivato questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti […] per rendere più evidente la maestà di un Sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).

Uno dei segni più antichi consiste nel volgersi verso oriente per pregare. L’oriente è simbolo di Cristo, il Sole di giustizia. «Erik Peterson ha dimostrato la stretta connessione fra la preghiera verso oriente e la croce, connessione evidente al più tardi per il periodo post costantiniano. […] Presso i cristiani si diffuse l’uso di indicare la direzione della preghiera con una croce sulla parete orientale nell’abside delle basiliche, ma anche nelle camere private, ad esempio, di monaci ed eremiti» (U.M. Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, p. 32).

«Se ci si domanda verso dove guardassero il sacerdote ed i fedeli durante la preghiera, la risposta deve suonare: in alto, verso il catino absidale! La comunità orante durante la preghiera non guardava affatto davanti a sé all’altare o alla cattedra, bensì elevava in alto le mani e gli occhi. Così il catino absidale assurse all’elemento più importante della decorazione della chiesa, nel momento più intimo e santo dell’agire liturgico, la preghiera» (S. Heid, «Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit», Rivista di Archeologia Cristiana 82 [2006], p. 369 [mia trad.]). Quando dunque si trova rappresentato nell’abside Cristo tra gli apostoli e i martiri, non si tratta solo di una raffigurazione, bensì di una sua epifania dinanzi alla comunità orante. La comunità allora «elevava in alto le mani e gli occhi “al cielo”, guardava concretamente a Cristo nel mosaico absidale e parlava con lui, lo pregava. Evidentemente, Cristo così era direttamente presente nell’immagine. Giacché il catino absidale era il punto di convergenza dello sguardo orante, l’arte provvedeva a fornire quanto l’orante necessitava: il Cielo, dal quale il Figlio di Dio appariva alla comunità come da una tribuna» (ibid., p. 370). (mais…)

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A dieci anni della promulgazione, la Dominus Jesus interroga ancora
Intervista a don Mauro Gagliardi
di Antonio Gaspari 

ROMA, giovedì, 16 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Il 6 agosto del 2000, in pieno Giubileo, la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò la Dichiarazione Dominus Iesus, sulla unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa.

Sebbene il testo non facesse altro che ripetere la dottrina immutabile della Chiesa Cattolica in materia, senza proporre alcuna novità, la sua pubblicazione scatenò un’ampia serie di reazioni, in buona parte negative. Rispetto ai secoli passati era infatti nuovo il contesto ecclesiale e culturale in cui la Dichiarazione veniva a collocarsi.

Nel decennale della pubblicazione, l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (APRA) di Roma ha dedicato un congresso di due giorni all’approfondimento delle tematiche contenute nel documento vaticano.

Ora l’editrice Lindau ha pubblicato gli atti di quel congresso con il titolo “La dichiarazione Dominus Jesus a dieci anni dalla promulgazione”. (mais…)

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Rubrica «Spirito della Liturgia»

di don Mauro Gagliardi*

ROMA, mercoledì, 20 ottobre 2010 (ZENIT.org).- È stata pubblicata due giorni fa, lunedì 18 ottobre, la Lettera ai Seminaristi di Benedetto XVI, per la conclusione dell’Anno Sacerdotale. Al n. 1, il Papa esordisce ricordando che «chi vuole diventare sacerdote, dev’essere soprattutto un “uomo di Dio”» e questo in concreto significa che:

«il sacerdote non è l’amministratore di una qualsiasi associazione, di cui cerca di mantenere e aumentare il numero dei membri. È il messaggero di Dio tra gli uomini. Vuole condurre a Dio e così far crescere anche la vera comunione degli uomini tra di loro. Per questo, cari amici, è tanto importante che impariate a vivere in contatto costante con Dio» (n. 1).

Nell’insegnamento di papa Benedetto, la preghiera è «luogo» privilegiato di apprendimento dello stile di vita cristiano. Ad esempio, nell’enclica Spe Salvi, il Santo Padre aveva presentato la preghiera come uno dei principali «luoghi» di apprendimento e di esercizio della speranza cristiana (cf. nn. 32-34). Anche nella Lettera ai Seminaristi, essa è considerata il modo concreto in cui il candidato al sacerdozio impara a stare in intima e continua comunione con il Signore:

«Quando il Signore dice: “Pregate in ogni momento”, naturalmente non ci chiede di dire continuamente parole di preghiera, ma di non perdere mai il contatto interiore con Dio. Esercitarsi in questo contatto è il senso della nostra preghiera. Perciò è importante che il giorno incominci e si concluda con la preghiera. Che ascoltiamo Dio nella lettura della Scrittura. Che gli diciamo i nostri desideri e le nostre speranze, le nostre gioie e sofferenze, i nostri errori e il nostro ringraziamento per ogni cosa bella e buona, e che in questo modo Lo abbiamo sempre davanti ai nostri occhi come punto di riferimento della nostra vita» (n. 1). (mais…)

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